È davvero l’esperienza a renderci perfetti?

Qualche giorno fa, in una conversazione informale spuntò fuori, tra vari argomenti, il tema della forma perfetta. Il mio interlocutore asseriva che la perfezione potesse essere raggiunta soltanto con il passare del tempo, giacché la giovinezza è “affetta” dall’inesperienza.

Ad una prima occhiata il suo discorso mi appariva corretto. Solo dopo averci riflettuto per qualche minuto mi resi conto che aveva una piccola e non trascurabile pecca: non veniva accennata l’innovazione e considerava la tradizione l’unica via per raggiungere il modello al quale tutti in un certo senso aspiriamo. Gli errori commessi da tutto ciò che è giovene, nuovo e inesplorato costituiscono l’humus che plasma la materia che deve trasformarsi. Il mio interlocutore parlava della perfezione come di qualcosa di tangibile, visto e percepito da tutti. È vero che sulla definizione di perfezione ognuno di noi potrebbe stare a diquisire delle ore e io non ho l’obiettivo di indagare sulla natura della stessa. Ciò che mi preme è, invece, spostate l’attenzione sulla pura dinamica perché tutti i tentativi permessi dall’etica che vengono fatti per raggiungere un’utopia rimangono l’unica cosa che possiamo ancora toccare con mano. Sbagliare, lavorare su se stessi è quello che rende valido ogni tentativo. E la giovinezza non è proprio il periodo che conduce gli uomini quanto più vicini a quel concetto? La giovinezza è, in realtà, l’unico rimpianto che molte persone anziane bollano come sbagliato. Come l’uva per la volpe di Esopo.

Andreanahood

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